Forse mai come oggi il design si trova al centro

di una serie di problematiche assai complesse che impongono più di una riflessione sul suo ruolo all’interno del mercato delle merci, ma ancor prima una rilettura terminologica delle sue definizioni.
Sarebbe il caso di segnalare come la traduzione più esatta del termine “design” sia infatti “progettazione”, declinandola secondo la tradizione anglosassone nei vari ambiti di intervento (progettazione visiva, industriale, di mobili ma anche di moda e di interni); e come tale traduzione segnali una radice etimologica (il verbo latino “proicio”, ovvero “gettare innanzi, emettere”, e per traslato “esporre”) che ben si adatta alla gestione della finalità di problem-solving storicamente appartenenti a tale attività.
Cosa espone effettivamente il designer, nella sua opera, se non il dispiegarsi dei problemi (abitativi, comunicativi, produttivi...) da risolvere, e il piano strategico ideale per dare loro una risposta?
E di problemi il mondo attuale ne pone parecchi, a cominciare dalle innovazioni introdotte dalla tecnologia, che modidicano fortemente le stesse logiche produttive, introducendo nuovi rapporti col mercato, con l’ambiente, e con lo stesso utilizzatore finale, l’uomo, cioè.

É già stato osservato come la rivoluzione elettronica abbia imposto una accelerazione fortissima di tutti questi aspetti, rendendo necessaria una nuova consapevolezza da parte del designer nei confronti del suo ruolo; consapevolezza che, purtroppo, spesso non trova il suo corrispettivo nella prassi produttiva dell’industria.
L’elettronica da un lato smaterializza gli oggetti ai quali si applica, aumentando esponenzialmente le loro funzioni in assenza però di un apparato fisico tangibilmente percepibile che la evidenzi (pensiamo alla opacità di un microchip rispetto alla facilità di comprensione di un motore a scoppio, e consideriamone la pervasività all’interno di un parco oggetti già noto); dall’altro impone un innovazione sempre più rapida, che si traduce nella necessità di rinnovare continuamente i prodotti immessi nel mercato, pena la perdita di competitività.
Il risultato è che l’utente medio si trova di fronte a famiglie di oggetti radicalmente nuovi (il computer, il modem...) o ad altre composte di artefatti di uso corrente dotati però di prestazionalità inedite ed inusitate (le lavatrici, i telefoni, le stesse automobili...); mentre il tempo di vita di tali strumenti si accorcia in rapporto ai ritmi di una tecnologia dalle evoluzioni sempre più incalzanti, espresse a livello di marketing da una filosofia che non può non adeguarsi alle fasi incalzanti del prodotto di moda.
Nè sembri tale visione apocalittica: sarebbe impensabile da parte del designer, al giorno d’oggi, evitare di confrontarsi con le necessità comunicative proprie della produzione attuale, necessità che riguardano non solo gli oggetti ad alto contenuto tecnologico ma anche tutti quelli (e sono le nostre sedie e i nostri tavoli) che abbisognano di un continuo adeguamento alle modificazione dell’habitat umano; e, sul secondo versante, non tenere conto dell’obbligo di stabilità, percettiva e cognitiva, messa in gioco nei confronti dei suoi utensili da un essere dotato di una temporalità assai dilatata, come è l’uomo con la sua memoria.

E qui incontriamo le intenzioni e i progetti degli autori raccolti ne LA LINEA ADRIATICA: un gruppo di autori che sembra voler ripercorrere, fatte salve le dovute proporzioni, la strada tracciata dalle Arts and Crafts di William Morris, in un orizzonte logicamente mutato.
Nè sembri particolarmente azzardato, tale paragone, visto che la finalità di quel movimento non negavano sdegnosamente i contributi del progresso tecnologico; ma si opponevano radicalmente alla dequalificazione estetica e cognitiva derivante dalla troppo semplice equazione secondo la quale dalla produzione industriale può emergere solo un prodotto stereotipato destinato all’uomo-massa.
Una concezione che, a ben vedere, non è mai definitivamente tramontata, e che trova ancor oggi un bel seguito nella continua diffusione di tipologie standardizzate che costituiscono il grosso del nostro mondo di forme e immagini.
E’ ovvio che la contrapposizione si fa attualmente meno radicale: ma questo deriva anche dal fatto che, in questo scenario da seconda rivoluzione industriale, gli autori qui raccolti sono ben consapevoli della indubbia alfabetizzazione visiva della società, dovuta alla diffusione capillare dei media.
Ma è sintomatica la stessa intenzione di farsi gruppo, con una visione quasi avanguardista che li rispecchia nella ferrea “volontà di forma”, talora prossima alla provocazione.

Gli arredi proposti da LA LINEA ADRIATICA sono innanzitutto figli di una pratica globale che vede i nostri designer in campi diversi della cultura del progetto, dalla grafica all’allestimento di interni, ancora una volta in sintonia con le intenzioni delle Arts and Crafts.
Dove il principio di una funzionalità diversa diventa anche questione stilistica generale.
Nel loro lavoro emerge infatti la necessità di ampliare il campo dei simboli disponibili alla gestione delle umane cose; dove il principio della affettività propugnato dal Post-moderno, anche con i suoi sconfinamenti nel kitsch e nel banale, fa i conti con un principio di evocatività più generale, nato da una rilettura assai complessa di stili ed elementi formali da cui scaturiscono nuovi sillogismi funzionali che non riguardano solo l’aspetto scenografico, o quello comunicativo, ma che ipotizzano pure l’opportunita dei nuovi utilizzi, o la risposta di vecchi ingiustamente dimenticati da una logica di standardizzazione nella produzione che deriva in fondo dal concetto di standardizzazione dei comportamenti.
Così, lavorando sulle possibilità simboliche, emotive ed empatiche delle loro realizzazioni i nostri premono sull’accelerazione della visionarietà proponendo talora vere e proprie isole abitative.
Ma c’è dell'altro.

In LA LINEA ADRIATICA troviamo una riscoperta di lavorazioni di carattere artigianale che sembrerebbero proporre, tout-court, un deciso ritorno alla tradizione.
Però, aldilà del fatto che accanto a materiali raffinati ad essa appartenenti vediamo anche comparire elementi ben saldati all’immaginario produttivo industriale (le resine, il plexiglas), dobbiamo forzatamente rimarcare che è il rapporto stesso con la tecnologia ad essere preso di mira, laddove è evidente che essa permea lo stesso ambito dell’artigianato, modificando i procedimenti di produzione e rendendo più facili e più duttili le lavorazioni.
E viene da chiedersi se questo non sia un problema già affrontato, sempre fatte salve le proporzioni, non solo dalle Arts and Crafts ma anche dalla Wiener Werlkstätte di Wagner, Olbrich e Hoffman, a inizio secolo.
L’utilizzo di materiali tradizionalí (legno, ferro, cuoio), magari mescolati ad altri di ben più recente tradizione evidenzia sì l’intenzione di manipolare e scatenare le loro opportunità simboliche, ma anche, di consegna, di recuperare una serie di valori stabilmente legati alla stessa dimensione esistenziale umana, valori di equilibrio che permettono all’uomo di percepire e comprendere, impegnando le proprie attitudini psicofisiche, l’ambiente artificiale che lo circonda.
Rispettando in tale maniera la complessità del proprio vissuto, troppo spesso trascurata dal dinamismo e dall’ipertrofia del nostro parco oggetti.
Una riflessione, quest’ultima, che essendo portata avanti anche in altri ambiti del design contemporaneo dimostra che il problema più scottante nel campo della progettazione non riguarda funzionalità astratte o estetismi di maniera, ma lo stesso rapporto fra l’uomo e il suo ambiente, ambiente composto per la maggior parte proprio di artefatti.

E' a partire da questi punti che possono nascere tutte le considerazioni possibili sul 'genius loci’, e sull’importanza delle culture locali nella dimensione planetaria raggiunta dalla conoscenza contemporanea, applicabili alla scelta stessa di una sigla geografica come LA LINEA ADRIATICA.

Ma ci sia permesso, forse forzando troppo i toni, di considerare questa stessa scelta come un’altra sfida: quella di dimostrare che, all’interno del villaggio globale profetizzato ormai da decenni, nel campo dell'ideazione e della progettazione, non esistono più capitali deputate a tali attività per intrinseco statuto.

Carlo Branzaglia